mercoledì 24 agosto 2011

Il condominio Caldara

 E come promesso il terzo capitolo, buona lettura.



Il condominio Caldara deve il suo nome al proprio costruttore, tal Ingegner Anselmo Caldara, sostenitore del partito fascista. All’ Ingegner Caldara  si devono, nei tempi del regime, alcune opere monumentali come la statua del Monarca, che sorgeva sui resti di una vecchia fontana del Bernini, fatta brillare con quintali di tritolo  per far posto all’opera di ingegno futurista, colata interamente in un unico pezzo di bronzo: la statua, non la fontana; l’ospizio dei reduci di guerra, alla cui inaugurazione partecipò, come riportano le cronache del tempo, l’amico di un cugino acquisito del Duce. La struttura fu realizzata da un solo blocco di marmo di ventimila metri cubi, estratto dall’unica cava del posto, conosciuta  ai giorni nostri come “lì c’era una montagna. Ma dove?!? Lì” ; ed infine, quella che per decenni fu considerata opera di raffinato ingegno,  modello per i popoli a venire e testimonianza della magnificenza del regime Fascista: il cimitero Balordo, in cui l’intera famiglia Balordo, antica casata di scalpellini, si estinse per portare a termine la monumentale opera. Ora, tutte queste testimonianze, che più di una volta le cronache del tempo ci tennero a elogiare come capolavori, furono rasi al suolo a seguito dello sbarco degli alleati. La statua del monarca fu nuovamente sostituita dalla fontana del Bernini, i cui pezzi furono conservati gelosamente dal professore Ernesto Cavapietre che, la notte seguente lo scempio, caricò su un carretto trainato da una mula di nome Arifacce, uno per uno i frammenti dell’opera del grande artista. L’ospizio dei reduci di guerra, fu riposizionato nella sede originaria della cava e negli anni a seguire divenne fonte inesauribile di marmo, per soglie, pavimenti e cigli stradali. In fine, il grandioso cimitero Balordo  fu distrutto da un improvviso bombardamento da parte degli alleati, perché convinti che fosse divenuto centro nevralgico della difesa nazista; alcuni giurano che il vero motivo di quel bombardamento fu che dopo una notte di baldoria, i piloti americani in volo di ricognizione sul paese , furono così tanto inorriditi dalla struttura del cimitero che vollero liberare gli abitanti e la loro vista, da quell’imbarazzante esempio di stupideria.  L’unica testimonianza dello spirito avveneristico dell’ingegner Caldara, come avrete capito, è l’omonimo condominio. Di color cacarella la struttura di sette piani sorgeva nelle viscere della palude bonificata; in realtà di tutta la bonifica effettuata in tempo fascista, il lotto 224 del foglio catastale n° 23, fu tralasciato; forse per dimenticanza  o forse per mancanza di manodopera che abbandonò il badile per impugnare il moschetto, o perché, ripetevano fonti sicure,  gli ultimi spiccioli dell’erario dello stato destinato alla grande opera di rivalutazione del territorio furono destinati alla costruzione dei bei monumenti.  Nonostante il terreno paludoso che risucchiò in poco più di un minuto un’ intera ruspa, e colonie di zanzare apache, il grande ingegnere dallo spirto guerriero si gettò a capofitto nell’opera che “sarebbe risultato” ripeteva a gran voce durante il comizio di inizio lavori “il connubio tra avanzamento tecnologico ed arte”.  Dopo le prime difficoltà dovute al terreno paludoso, risolte con un perfetto menefreghismo, in poco meno di due settimane alzando il capo verso la latrina dei pioppi si poteva vedere spuntare tra le cime innevate di polline, lo scheletro in cemento armato del condominio. Il lavoro fu completato in circa tre mesi. Potete immaginare che la velocità con cui furono effettuati i lavori divennero motivo di vanto nei simposi dei dittatori  “Noi Italiani le cose le facciamo bene e veloci”. Ora, l’ingegner Caldara, nell’intraprendere l’opera aveva fatto alcuni piccoli errori di calcolo sopravvalutando l’avanzamento tecnico e scientifico del paese, infatti al varo del palazzo non pochi furono gli interrogativi delle autorità. Tagliò il nastro il famosissimo Podestà del paese;  famosissimo non per le sue doti  amministrative ma perché conosciuto come gran frequentatore di tutti i bordelli della piana delle sette dighe.  Seguirono in ordine, l’ufficiale dell’esercito fascista, Isidoro Rognoni e l’ufficiale ospite, Colonnello  Vonsput su Tuttcos, la baronessa Ermengalda Giulietta Figliaviscontempazziti, il vescovo monsignor  Rocrotti ed  un seguito di lacchè e cariche minori. La prima stranezza che instillò il seme del dubbio tra i presenti, fu un foro circolare nel  soffitto di ogni piano; lo stupore generale non fu dovuto semplicemente a questo bensì ad una lunghissima barra di acciaio che attraversava i fori a partire dal piano terra per finire al settimo piano. Di fronte alla perplessità dei notabili signori, l’ingegnere si giustificò dicendo che in caso di improvvisi bombardamenti  gli inquilini avrebbero abbandonato l’edificio in poco più di dieci minuti, portando in salvo le proprie vite e quelle dei propri cari, scivolando giù per “la perteca” come la chiamava lui. Di fronte a tale afflato altruistico i presenti dissiparono ogni dubbio con un lungo applauso. Altro motivo di plauso ed onore per l’ingegnere fu la costruzione di una imponente cappella dedicata alla madonna del paese, corredata di altare, sedute ed accessori per le funzioni sacre, comprese nel prezzo due arpie intente a dire il rosario, pagate per presenziare ad ogni funzione. Non trascorsero pochi istanti che il seme del dubbio ritornò ad affondare nuovamente le proprie radici nel cuore dei presenti, tutto avvenne nel momento in cui si sarebbero dovuti portare ai piani sovrastanti. Nulla di male se non per la mancanza di scale; dove sarebbero dovute crescere rampe di scale, corrimano in ferro battuto e pedate di travertino, vi era un immenso  spazio vuoto. Seguito dai presenti l’ingegnere si inerpicò sui piani dell’impalcatura esterna, spiegando che presto avrebbero installato, al posto delle obsolete scale, degli ascensori che in meno di tre secondi avrebbero condotto gli inquilini sino al settimo piano. Fu nuovamente ovazione.
Vere e proprie perplessità affiorarono durante il tour degli appartamenti, in cui, con non poca difficoltà, dovettero entrare attraversando la finestra. Nell’impresa monsignor Rocrotti, gran consumatore di Polenta e Osei e acquavite, restò incastrato a metà, tra l’esterno e l’interno. A nulla valsero gli sforzi dei presenti, Il colonnello Vonsput su Tuttcos, grande stratega militare e capo d’eserciti,  incitava dall’esterno a tirare il monsignore che come un bacarozzo sulla schiena agitava braccia e gambe; la baronessa urlava di far presto perché aveva un brutta sensazione, come quel lontano giorno del ventotto giugno millenovecentoquattordici, data del triste attentato di Sarajevo. Il podestà gran uomo di campagna, agli ordini del colonnello,  si rimboccò le maniche e cominciò a premere sulla schiena del prelato che cadde preda di convulsioni originate da un improvviso attacco di solleticudine; in tutto questo  l’ingegner Caldara si appuntò su un taccuino che molto probabilmente avrebbe dovuto modificare le dimensioni delle finestre. Dopo interminabili minuti di tira e spingi si decise per un intervento drastico; venne fatto chiamare il capomastro Bastiano Coteghe, uomo d’azione dotato di sangue freddo e di fede quanto il sughero di una bottiglia di lambrusco. L’uomo si presentò con gli attrezzi del mestiere, scalpello e mazzetta, e si gettò immediatamente nell’impresa di salvataggio. Dopo pochi minuti il prelato cominciò a sentir meno la morsa delle pareti così Bastiano decise di porre fine al tragico evento calciando con lo scarpone da lavoro le sacre terga del monsignore, urlando “ e che questo vi sia da lezione!”. Terminata l’opera di salvataggio e dopo che tutti furono entrati, cominciò il giro panoramico. La Ermengalda Giulietta Figliavisconteimpazziti, rimase a bocca aperta quando si accorse che dove sarebbe dovuto esserci l’uscio, sorgeva una parete intonacata di bianco; l’ingegnere non tardò a spiegare che in quell’avveniristico condominio non c’era bisogno di porte perché gli inquilini sarebbero entrati grazie all’installazione di ascensori che si aprivano direttamente sul piano. Ma quelle non furono le uniche stranezze del novello appartamento, infatti continuando il giro panoramico ci si accorse che dove solitamente sorgeva la cucina c’ era un unico castelletto di mattoni a mo' di forno, il cui comignolo finiva sul soffitto senza alcuna apertura, “avremo” spiegava l’ingegnere “delle ventole che risucchieranno in meno di un secondo tutto il fumo, lasciando però tutto l’aroma delle pietanze preparate.” “Fortunati gli inquilini” disse la Baronessa sotto l’occhio grave del Bastiano che si era unito alla ben assortita compagnia. Un‘ altra sorpresa fu la camera da letto, priva di finestre, al cui centro svettava una grande vasca dell’altezza di cinquanta centimetri per una larghezza di due metri e venti centimetri. L’ingegner Caldara intuendo negli sguardi persi la domanda che i presenti avevano timore di fare, spiegò che quella era "il letto, se così lo vogliamo chiamare." ; Bastiano che aveva caricato le proprie spalle con i secchi di cemento  ed aveva posato pezzo su pezzo i mattoni di ogni singolo muro, ripropose il commento che aveva espresso all’inizio dei lavori “un loculo è più luminoso!”, brevi sorrisi si fecero spazio sui volti dei visitatori, gli unici a non ridere erano l’ingegner Caldara e il Capitano Isidoro Rognoni che continuava a ripetersi “come lo spiego io al Duce?!?”. L’ingegnere ci tenne a precisare che gli inquilini non avrebbero dormito su materassi di piume ma immersi in un acqua speciale di sua ideazione “già esiste?!?” chiese la baronessa seguita dagli occhi affamati dei presenti “no, signora baronessa, sono ancora in fase teorica.”. E così di seguito passarono alla camera da bagno, quella di cui l’ingegnere era più fiero. La camera da bagno era una cloaca di vetri e specchi in cui l’uomo fascista avrebbe potuto ammirare la propria perfezione fisica e cercare nella trasparenza dei cristalli l’elevazione morale. Non vi era altro, non una toletta, un secchio, una cannella da cui attingere acqua, niente, soltanto vetri e specchi.
All’indomani della visita, alle cinque del mattino un corriere militare partì con cinque minuti di ritardo, con un’importante lettera diretta a sua magnificenza il Duce. In ritardo perché il capitano Isidoro era terrorizzato all’idea di dover raccontare il risultato dell’inaugurazione del condominio. Dopo una lunga notte di caffè, macchie di inchiostro, preghiere e pentimenti, di fronte al corriere stringeva tra le mani due buste, una in cui riportava con precisione ciò che aveva veduto con i propri occhi, ed una in cui dava una sommaria spiegazione, tralasciando, in alcuni casi modificando, alcuni piccoli particolari. Non c’è da dire che per ironia della sorte, per errore del destino, imbustò le lettere nelle buste sbagliate, così credendo di inviare la chiara descrizione dell’immobile, nella speranza di lavarsi le mani,  inviò la fantasiosa rivisitazione della giornata. Dopo poco meno di una settimana, il capitano ricevette la temuta risposta e con il terrore negli occhi, apprese la notizia che il Duce in persona si congratulava con la capacità ingegneristica del Caldara e della sua attenta supervisione, non sarebbero passate due settimane che sarebbe giunto nella cittadina per l’inaugurazione ufficiale e la sua benedizione. Il Duce. Di fronte a cotanta risposta, al capitano Isidoro Rognoni, non restò che accettare la propria ignoranza ed incapacità di apprezzare e capire l’ingegneria moderna. Come preannunciato dalla lettera, poco dopo due settimana, si presentò nella cittadina il Duce seguito dal suo manipolo di generali, colonnelli ed invitati della nazione alleata. La visita durò poco e non dobbiamo spiegare lo sgomento degli ospiti di fronte allo scempio di denaro e tempo;  in un solo minuto furono firmate due condanne a morte, una per l’ingegner Caldara ed una per il Capitano che poi furono tramutate, dopo un lungo colloquio con l’ospite alleato, in una condanna a deportazione in Germania per entrambi, mutata nuovamente in condanna a morte ed in fine, per il Capitano, condanna per disonore al Fascio e per l’ingegner Caldara, prigionia a vita in una squadra di bonifica. Dopo aver maledetto se stesso per aver sbagliato ad imbustare le lettere, il capitano Isidoro Rognoni prima che i fucili cantassero l’addio eterno sorrise e pensò “beh, in fondo, mi posso consolare…d’ingengeria un po’ ci capisco”. Alcune settimane dopo le sentenze, dopo lunghi dibattiti sul destino del condominio, chi voleva abbatterlo, chi incendiarlo chi donarlo ai profughi, giunse un nuovo ingegnere che  riprogettò e diede alla stuttura l’aspetto odierno.  Tutt’oggi gironzolando per il cortile o per qualche stanza è possibile scorgere qualche ricordo della prodezza ingegneristica del Cladara, come per esempio i resti di una vasca matrimoniale, oppure la struttura basale degli avveniristici ascensori.
Questa è la storia del condominio Caldara, infestato da sempre da ogni specie di insetto, dalla struttura assai complicata ed incomprensibile in cui facilmente si rischia di rimaner bloccati in una finestra o di riflettersi in uno specchio mentre si fa la cacca. Tutto qui.

Tra due settimane il prossimo capitolo.

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